La trascrizione nella procedura ecdotica-informatica
Abstract
Accade spesso nell’informatica umanistica che un tentativo di riflessione analitica sugli oggetti dei nostri studi1 conduca a due risultati: (i) in primo luogo si capisce che la modalità digitale di esistenza di tali oggetti li differenzia nettamente da come essi erano nella modalità analogica, o pre- informatica: ci troviamo davvero dinanzi a un’altra cosa; (ii) in secondo luogo una tale riflessione consente alcune acquisizioni teoriche a proposito di quegli oggetti in quanto tali, ci permette insomma di capire qualche cosa che prima ci era sfuggito, e talvolta si può trattare di cosa importante.
È mio parere personale (tanto convinto quanto isolato) che il punto (ii) meriterebbe da solo gli sforzi e il tempo che il tentativo di usare l’informatica per le discipline umanistiche ci richiede, ma non c’è dubbio che la premessa di ogni ragionamento sia prendere sul serio il punto (i).
Il punto (i) enuncia evidentemente una ovvietà, riassumibile nell’affermazione seguente: “ciò che è digitale non è analogico”; ma forse non tutte le cose ovvie sono anche banali, e di certo non è banale trarre tutte le conseguenze dal fatto che il prodotto testuale digitale a cui l’informatica umanistica lavora non è analogico.
In realtà si oppone a che questa consapevolezza ovvia ci sia davvero presente, e ci sia presente in ogni momento del nostro lavoro, una delle (tante) meravigliose capacità della macchina informatica, una capacità che potremmo definire “capacità mimetica”: la macchina informatica sa “imitare” il mondo pre-informatico2 e in particolare le sue macchine, essa “finge” di volta in volta di essere – ad esempio - una macchina da scrivere, o un telefono, o una macchina fotografica, oppure la pagina di un libro sullo schermo del computer, etc. mentre in realtà essa è tutt’altra cosa.