@article{Gruber_2007, title={… IL ME FAUT VOUS APPRENDRE A M’APPRENDRE A ME LIRE…}, url={https://testoesenso.it/index.php/testoesenso/article/view/153}, abstractNote={<p>Eberhard Gruber, … Occorre che vi insegni ad insegnarmi a leggermi<br />La scomparsa di Jacques Derrida scrive e chiude l’ultima pagina delle commosse<br />commemorazioni che il filosofo dedicò a colleghi ed amici, dal 1980 con la morte di<br />Roland Barthes a quella di Maurice Blanchot nel 2003. Chaque fois unique, la fin du<br />monde (Ogni volta unica, la fine del mondo), la raccolta che riunisce tra<br />altri i<br />ritratti di Michel Foucault, di Edmond Jabès, di Sarah Kofman, di Gilles Deleuze, di<br />Emmanuel Levinas, di JeanFrançois<br />Lyotard, impone alla «mélancolie sans âge» (la<br />malinconia senza età) di fare i conti con la memoria al presente. Ma «Chi ormai farà<br />da testimone al testimone?» come<br />scrisse Paul Celan nella poesia (commentata a<br />lungo da Derrida) Aschenglorie (cenerigloria). Testimonianza, memoria, confessione,<br />circoncisione: Circonfession (circonfessione); nel ventiquattresimo periodo del libro<br />(dedicato alla memoria della madre), Derrida scrive appunto il me faut vous<br />apprendre à m’apprendre à me lire (occorre che vi insegni ad insegnarmi a<br />leggermi). L’imperativo esprime l’obbligo di stabilire tra autore e lettore una<br />relazione interattiva<br />e reciproca di scritturaletturatraduzione:<br />la mia lettura del mio<br />scritto è già da sempre la lettura da un altro del mio scritto; essa implica un altrocomelettore<br />che condivida processo lettoriale e comprensione e che traduca<br />la<br />scrittura in lettura. Ma il compito del lettore chiamato a leggere “per l’autore” e per<br />sé stesso è esposto al rischio di letture contrastanti: autentico “traduttore” sarà colui<br />che riuscirà a farle convergere, a leggerle collegandole; evitando quindi di cadere o<br />nella “parafrasi di un presupposto deriddiano”, o nell’ ”arbitrarietà lettoriale”. La<br />frase di Derrida è un invito alla performatività lettoriale: non a formulare<br />semplicemente la lettura deriddiana ma a fare riformulare<br />una lettura dello scritto<br />deriddiano con parole altre che non quelle già scritte, con il fine di implementarne il<br />senso. La traduzione per Derrida si situa sempre nell’entredeux<br />dello scritto in<br />quanto scritto e dello scritto in quanto lettura prefissata. Derrida si legge “traducendosi”,<br />facendosi tradurre da un altro sé stesso, da un altro da sé. L’etica, la<br />responsabilità, il rischio della traduzione stanno in quella condivisione della<br />“performatività”, ma anche nell’intervallo, nell’intercapedine, nel ritirasi del<br />traduttore nell’accettazione dell’impossibile possibilità, nell’assunzione<br />dell’irriducibilità dell’idioma. Derrida, rigoroso e scrupoloso traduttore di Husserl,<br />formula l’aporia: Rien n’est traduisible. Tout est traduisible (Nulla è traducibile.<br />Tutto è traducibile), completandola con: “l’intraducibile è traducibile” e “il<br />traducibile è intraducibile”. Questa relazione contraddittoria rimanda a quei paradossi<br />evidenziati da Walter Benjamin, ne Il compito del traduttore: «Ma la traduzione non<br />si trova, come l’opera poetica, per così dire all’interno della foresta del linguaggio,<br />ma al di fuori di essa, dirimpetto ad essa, e, senza porvi piede, vi fa entrare<br />l’originale, e ciò in quel solo punto dove l’eco della propria lingua può rispondere<br />all’opera della lingua straniera »[1]. La lettura che Derrida propone del Mercante di<br />Venezia, dimostra quanto lo scarto tra logiche opposte, la consapevole distorsione del<br />linguaggio e dei concetti, l’assenza di traduzione condivisa (senza equivalenza, né<br />reciprocità non c’è perdono possibile, né giustizia) portano al trionfo dell’inganno e<br />della derisione. L’etica della traduzione sta invece nella modestia del compito,<br />nell’umile riconoscimento di equivalenze, nella relazione non possessiva né<br />dominatrice tra leggere e scrivere, sotto il segno della condivisione e della<br />reciprocità. Il lavoro dell’umano traduttore, né passiva imitazione né pretesa di<br />origine, accompagna l’opera al suo stesso livello, come l’esecuzione musicale di uno<br />spartito: l’opera è orchestrata dalle sue letturetraduzioni.<br />[1] Walter Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi,<br />Torino, Einaudi, 1962 e 1995, p. 47.</p>}, number={8}, journal={Testo e Senso}, author={Gruber, Eberhard}, year={2007}, month={nov.} }