Lelio la Porta

Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata , Venezia, Marsilio, 2013, pp. 255.

È moda recente, o, se si preferisce, è tornato recentemente di moda, scrivere, discettare, elucubrare intorno a Gramsci e ai suoi rapporti con Togliatti nei termini di una demonizzazione del secondo. Togliatti avrebbe nascosto un Quaderno del carcere in cui Gramsci avrebbe dichiarato il suo allontanamento dal comunismo e magari un’adesione all’azionismo, al liberalsocialismo o addirittura a quella che un giorno (essendo morto nel 1937, il grande sardo non vide la nascita del partito di De Gasperi, erede di quello di Sturzo) sarebbe stata la Democrazia cristiana, dato che - altri dicono con sicurezza - in punto di morte ci sarebbe stata la sua conversione con tanto di somministrazione dell’estrema unzione. Inoltre Togliatti si sarebbe adoperato in tutti i modi per delegittimare il suo compagno di Partito prima come segretario e poi come comunista in quanto tale per poi riappropriarsi surrettiziamente con abile e diabolica manovra politico-culturale di tutto il suo lascito teorico e letterario per presentarlo all’Italia intera come una sua opera di salvazione di materiale che altrimenti avrebbe fatto una brutta fine. A supportare quest’insieme di argomentazioni giunge, ultimo in ordine di tempo, il libro di Mauro Canali, edito da Marsilio, intitolato Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata.

Assemblando materiali noti ed altri inediti, l’autore costruisce un abile libro giallo da cui emerge come Togliatti abbia lavorato per far marcire in carcere il suo compagno di Partito per poi, a guerra ultimata, dichiararsi il suo erede e dichiarare di conio gramsciano tutta la politica del Partito comunista italiano, in specie quella culturale. Procediamo con ordine. La “famigerata lettera” di Grieco sarebbe stata ispirata da Togliatti per creare una situazione di difficoltà al suo compagno in cella mentre erano avviate trattative fra la Santa Sede e lo Stato italiano al fine di liberare Gramsci. E questi si legò al dito il tradimento del compagno tanto che nella lettera alla cognata del 5 dicembre del 1932 scrisse che “può darsi che chi scrisse fosse solo irresponsabilmente stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere”. Canali semplicemente trascura la nota in appendice a questa lettera nell’edizione Sellerio delle Lettere dal carcere curata da Antonio A. Santucci (nota che Santucci redasse tenendo presente il lavoro di Gerratana intitolato Lettere a Tania per Gramsci) in cui si riporta una lettera di Sraffa a Tania del 1937 (Gramsci era morto da 5 mesi) in cui si sostiene la leggerezza di chi scrisse la lettera nel 1928 ma al tempo stesso si esclude che si fosse trattato di cattiveria o di piano diabolico: “Fui confermato in questa mia opinione dal fatto che Nino (Gramsci) disse di essere stato messo sulla strada del sospetto dal giudice istruttore (Macis); e si sa bene che l’insinuare sospetti del genere fa parte dell’abbicì del mestiere di giudice istruttore”. Poiché la polemica di Canali è contro gli storici togliattiani, ha pensato bene di escludere dalla sua analisi sia Gerratana sia Santucci in quanto noti storici togliattiani. Ma Sraffa sicuramente tale non era. Sarebbe stato più utile consultare i testi gramsciani noti che andare alla ricerca dello scoop negli Archivi. Cosa che accade (pp. 155-6) con alcune richieste inoltrate da Gramsci e che Canali riporta con i riferimenti d’Archivio senza curarsi minimamente del fatto che le stesse lettere erano già state pubblicate in Appendice al volume delle Lettere dal carcere edito da Sellerio e curato, come già detto, ma ci piace sottolinearlo, da Santucci (en passant, Canali scrive che questa edizione delle Lettere “sembrerebbe” integrale e definitiva; lo solleviamo dall’ambascia di ulteriori e impegnative ricerche non si sa dove visto che, se vuol leggere in italiano tutte le lettere, quella curata da Santucci è per davvero l’unica edizione integrale e definitiva).

Tutto il capitolo sui tentativi di liberazione di Gramsci e le trattative fra la Santa Sede e lo Stato italiano è inficiato da un vizio di fondo, ossia dal fatto che non soltanto Spriano (L’ultima ricerca di Paolo Spriano, volume pubblicato come supplemento all’allora quotidiano del Partito comunista italiano del 27 ottobre del 1988, doverosamente citato da Canali) ma la stessa “Unità”, qualche giorno dopo, per la precisione il 31 ottobre 1988, pubblicò (con la firma di Eugenio Manca e un corredo di fotocopie) le stesse lettere che Canali propone oggi come uno scoop al lettore senza fare alcun riferimento al quotidiano e alla sua opera di disvelamento della verità.

Per non coltivare ulteriori dubbi circa l’assoluta inaffidabilità scientifica del lavoro di Canali (altra notazione: non c’è l’indice dei nomi e questo è gravissimo), chi scrive ha ritenuto opportuno assistere alla presentazione del lavoro presso una nota libreria di Roma. Qui Canali ha dato ulteriore e definitiva prova dell’approssimazione con cui si accosta ai testi e di quel vezzo di certo mondo della ricerca che vuole piegare i testi alle proprie esigenze, “sollecitandoli”; da studioso di Gramsci come credo che Canali ritenga di essere, dovrebbe conoscere la nota dei Quaderni in cui Gramsci reclama un tribunale per chiunque voglia “sollecitare i testi”, in quanto manifestazione di trascuratezza ed incompetenza al punto di meritare almeno “una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria” (cfr. Quaderno 6, nota 198, p. 838 dell’edizione einaudiana dei Quaderni curata da Gerratana e pubblicata nel 1975). Per rendere più chiaro quanto Togliatti avesse tradito Gramsci, l’autore ha portato come esempio il diverso atteggiamento dei due rispetto alle avanguardie letterarie, in specie il futurismo, di cui Gramsci sarebbe stato sostenitore a spada tratta, per dimostrare come la politica culturale del Pci impostata da Togliatti nel secondo dopoguerra in nome di Gramsci fosse un altro tradimento del pensiero del grande sardo. A sostegno del suo punto di vista Canali ha letto l’articolo gramsciano pubblicato sull’ “Ordine Nuovo” il 5 gennaio del 1921 in cui Gramsci sostiene sì la capacità del futurismo italiano di soddisfare il bisogno di nuova cultura espresso dalla classe operaia ma al tempo stesso lo ridimensiona di fronte all’adesione massiccia dei futuristi al fascismo e alla guerra imperialista. Ovviamente Canali, sollecitando il testo, ha letto soltanto la parte che avrebbe potuto utilizzare allo scopo di dimostrare il tradimento togliattiano postbellico nei confronti delle posizioni gramsciane. Qualcuno nel pubblico ha proposto al Canali di tener presente quanto Gramsci ha effettivamente scritto nei Quaderni a proposito del futurismo, prima definito da lui sarcasticamente come “un gruppo di scolaretti scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre” (Quaderno 1), e poi definitivamente archiviato nel Quaderno 21 nel modo seguente: “Ma sia il futurismo di Marinetti sia quello di Papini, sia Strapaese hanno urtato, oltre il resto, in questo ostacolo: assenza di carattere e di fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e pagliaccesca da piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici.” (p.2110). Ma il Canali mostrava di non conoscere questi testi gramsciani e la sua sodale di presentazione, Mirella Serri, dichiarava candidamente che a lei “non risultava” che Gramsci avesse espresso giudizi così stroncatori nei confronti del futurismo. Invitati ad affidarsi, prima di esternazioni filologicamente poco attendibili su Gramsci, almeno alla consultazione del Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, edito da Carocci (2009), i relatori (c’era anche Marramao, piuttosto defilato in questa fase della discussione) mostravano tutto il loro scetticismo nei confronti di un atteggiamento scientificamente più esaustivo rispetto ai loro “se” da storia controfattuale. Nella sostanza, “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.