Cristina Meini, Fuori di testa. Le basi sociali dell’io, Milano: Mondadori Università, 2012.

L’identità personale, l’io, il sé, la coscienza: questa è l’affascinante tematica del testo di Cristina Meini, un testo denso, di cui è difficile fornire una sintesi che non tagli fuori aspetti interessantissimi. L’autrice, consapevole della lunga storia delle idee e delle ricerche sul tema scelto, si pone lo scopo di fornire un quadro interdisciplinare, non solo come collezione di dati e teorie, ma proprio alla ricerca di una sovrapposizione, di una integrazione tra teorie provenienti da prospettive differenti, per giungere ad evidenziare come contributi così diversi teoricamente e metodologicamente convergano nel sottolineare la natura sociale dell’identità. Ciò non significa, e lo si evince bene nel corso della lettura, che la cultura sia determinante a discapito del correlato biologico, anzi la dicotomia natura/cultura appare evidentemente superata, come lo è agli occhi di una attenta analisi epistemologica dei risultati attuali delle neuroscienze cognitive.

È fondamentale sottolineare che l’identità personale non è da Meini solo intesa come conoscenza riflessiva di sé (cfr. Meini, p. 2), piuttosto ella sostiene che vadano tenute in debita valutazione anche le forme più “rudimentali” di sé, come il senso di possedere un corpo, di avere capacità agentiva, e una unità in grado di cogliere la realtà dal proprio specifico punto di vista. Effettivamente Meini mostra come alcune autorevoli teorie dell’identità prevedano livelli diversi del sé, che si rendono evidenti sia durante lo sviluppo ontogenetico, sia attraverso l’analisi clinica: “attraverso metodi d’indagine assai diversi, psicanalisi, neuroscienze e psicologia sperimentale si incontrano quindi nel concepire l’identità personale come un’entità stratificata, frutto di un lungo processo” in cui cruciale è il ruolo svolto dalla relazione (p. 90). Ma andiamo con ordine, e cerchiamo di analizzare la struttura del testo.

In un primo capitolo, Meini sceglie di porre gli “estremi del problema”, ovvero di discutere di due concezioni dell’Io antitetiche: quella formulata da Cartesio (e spesso propria del senso comune), con l’identificazione tra mente e coscienza e la formulazione del Cogito, da cui deriva l’idea che ognuno di noi abbia un accesso privilegiato ai propri stati mentali; e quella di Vygotskij, che si sofferma sulla funzione e origine sociale dell’identità, sulla base delle relazioni e dello scambio linguistico. Della teoria di Vygotskij, come vedremo, Meini conserva elementi fondanti, pur criticando la stretta dipendenza del pensiero dal linguaggio insita nel discorso dello psicologo sovietico (che per la verità ne afferma radici genetiche diverse: solo dopo lo sviluppo del linguaggio, il pensiero si trova ad esso sovrapposto).

Meini prosegue, nel secondo capitolo, con un’accurata analisi della “frammentazione del sé” proposta da William James nel 1890, nella sua prospettiva funzionalista. Appare subito evidente che “coscienza” per James non è sostanza (non è res), ma funzione: funzione del conoscere, funzione adattativa (sulla scia del pensiero darwiniano). E, sempre contro Cartesio, non è unitaria ma distinguibile in dimensioni differenti (sé, me - come oggetto di conoscenza, che a sua volta si differenzia in tre modalità interagenti di cogliere se stessi: materiale, sociale, spirituale -, e io puro come soggetto di conoscenza). Meini, dopo aver analizzato le dimensioni dell’identità, focalizza l’attenzione su quale sia il vero elemento unificatore del sé in James, trovandolo nella continuità dell’esperienza emotiva: “la coscienza … è un affastellarsi di episodi caldi, non una lineare storia di vita” (p. 36). Emozioni e memoria, dunque, come condizioni di possibilità dell’emergere di un Io.

Nel terzo capitolo l’attenzione si sposta su due ambiti disciplinari diversi: la neuropsicologia, con l’analisi del pensiero di Damasio, e la psicologia dello sviluppo (che poi vedremo ancora tornare nel corso del libro, con accenti più dinamici o più sperimentali), in particolare con Neisser. Meini mostra punti di contatto e di allontanamento di Damasio rispetto a James, dal quale egli stesso prende le mosse nella sua analisi sia delle emozioni che della coscienza, arrivando a sottolineare come nel bambino - per Damasio - sia già presente un senso della propria identità, della propria prospettiva particolare, pur non concettuale. Inoltre, Meini riporta i dati patologici sulla base dei quali Damasio, concentrandosi sulle dissociazioni cliniche, mostra come vi siano diversi livelli del sé che permangono nonostante gli altri siano compromessi in seguito a danni o patologie diverse (idrocefalia, Alzheimer, amnesie, anosognosia). A seguire, l’analisi dei Cinque tipi di conoscenza di sé (1988), in cui Neisser, in ottica chiaramente ecologica-gibsoniana, parla di sé ecologico, sé interpersonale, sé temporalmente esteso, sé privato e sé concettuale, seguendone lo sviluppo individuale tipico: ciò che se ne trae è l’importanza del movimento, della relazione, e l’idea fondamentale per cui, già a poche settimane di vita, in maniera preriflessiva, il bambino coglie la presenza di un’altra mente, come oggetto fenomenico distinto da oggetti inanimati.

Il capitolo successivo è dedicato alla rilevanza delle teorie dell’attaccamento per la spiegazione dell’identità personale, e in particolare alla teoria di Bowlby e ai suoi sviluppi da parte di altri autori (cfr. Fonagy e Liotti), giungendo all’idea della natura intrinsecamente interpersonale della coscienza. Un punto focale è in questo contesto l’analisi dei Modelli Operativi Interni, tracce mnestiche relative alle relazioni interpersonali, ovvero “rappresentazioni di sé-con-l’altro” (p. 79) costitutive della coscienza individuale.

Nel capitolo 5 ci si avvale delle ricerche sperimentali di studiosi quali Stern (e Trevarthen, anche se non esplicitamente trattato), e Gergerly e Watson come alternativi ad essi. L’idea fondamentale che emerge è quella di una sintonizzazione affettiva tra madre e bambino che conduce allo sviluppo della coscienza, fondata sulla sensibilità a quello che Stern definisce “affetto vitale delle azioni” (p. 93), nonché la rilevanza cruciale di uno scaffolding di tipo emotivo, un’impalcatura affettiva, con la quale l’adulto faciliti lo sviluppo della consapevolezza dell’emozione nel bambino e dunque dell’identità stessa del bambino, tramite processi di rispecchiamento empatico.

Successivamente, nel sesto capitolo, si sviluppa il concetto di rispecchiamento empatico trattando la psicologia del senso comune, tramite l’analisi dello sviluppo di questo tipo di competenza nel bambino e i modelli fondamentali (teoria della teoria e teoria della simulazione), sempre con l’attenzione alle sovrapposizioni tra conoscenza degli altri e formazione della propria identità personale.

Nel settimo capitolo si introduce la metodologia della psicologia evoluzionistica, cercando dunque nel passato remoto le ragioni evolutive per la comparsa delle competenze oggetto del volume di Meini. In questo contesto, segnaliamo la rilevanza della tesi di Hrdy del maternage cooperativo (allevare i propri figli assieme ad altri membri del gruppo di appartenenza) come fattore di sviluppo filogenetico della competenza sociale di comprensione della mente altrui.

Il denso capitolo 8 si concentra sull’annoso rapporto tra pensiero e linguaggio, in questo caso ai fini della comprensione dello sviluppo dell’identità personale, soprattutto come capacità di narrazione, di descrizione e comunicazione degli stati coscienti, nonché come modo di ricreare e auto-generare mondi sociali anche in loro assenza.

Un ultimo, interessantissimo capitolo 9 è dedicato al rapporto tra identità personale e nuove tecnologie, letto soprattutto alla luce del quadro teorico offerto dal paradigma della mente estesa (cfr. Di Francesco e Piredda, 2012). Se è vero che il sé è formato da più livelli/aspetti, e che la relazione con l’ambiente è fondamentale, possono forse alcuni aspetti dell’identità personale essere “estesi”? Meini offre esempi di come, assumendo una prospettiva funzionalistica, il tipo di relazione che il soggetto instaura con i nuovi motori di ricerca possa fornire una risposta affermativa alla domanda.

In sintesi, in questo testo Meini affronta una delle tematiche più interessanti nel panorama delle attuali scienze cognitive, e soprattutto dall’ottica della filosofia della mente, e la affronta consapevole della necessità metodologica di integrare prospettive differenti, stante la strettissima relazione tra modelli e risultati sperimentali, senza tralasciare la clinica come “cartina di tornasole” e mai dando per scontata l’integrazione costante, nello sviluppo ontogenetico, tra componente biologica e relazione con l’ambiente, in primo luogo sociale, e affettivo. Se è vero che l’importanza della relazione con l’altro per la costituzione della propria identità personale è stata affermata già da diversi studiosi in contesti disciplinari differenti, ciò non toglie nulla all’originalità e al cospicuo lavoro teorico di Meini, che offre una prospettiva sintetica e integrata, in maniera chiara e fornendo spunti di riflessione che rendono la lettura feconda e stimolante.