Editoriale

Da Certaldo a Pechino: il viaggio testuale di Boccaccio

Non si tratta di un nuovo Marco Polo: è un altro figlio di mercante, Boccaccio, che sbarca a Pechino in quanto narratore del Decameron, nelle primavera del 2013, per il settimo centenario della sua nascita. Forse addirittura più vicino al Marco Polo di Calvino per il suo sperimentalismo narrativo a tutto tondo, ma anche consono per arditezza e provocatorietà con quello di Pasolini che ha saputo farlo rivivere nei vicoli e nella parlata di Napoli.

Il  numero 14 (2013) di «Testo e Senso»  non poteva non portare il contrassegno della celebrazione del grande Certaldese: un autore che non occorre presentare, a cui è stata dedicata molta parte dell’attività d’insegnamento e di ricerca di alcuni tra i nostri autori e collaboratori, tanto da costituire un punto di riferimento intorno al quale si sono costruite teorie critiche, definite procedure interpretative, sperimentate fino ad oggi metodologie innovative di trattamento con il ricorso a quelle che furono le nuove tecnologie.

Si può dire che, più di ogni altro autore della letteratura italiana ed europea, Boccaccio si sia trovato al centro del confronto fra storicismo, strutturalismo, narratologia, semiotica, filologia e critica, per non citare la sterminata bibliografia, mi limito a ricordare alcuni nomi: da Erich Auerbach a Salvatore Battaglia, da Vittore Branca a Giuseppe Velli, da Tzvetan Todorov a Cesare Segre.

Prenderei come spunto il bilancio storiografico e critico, che Lucia Battaglia Ricci tracciavo nel 2000 (tuttora valido), osservando quante novità fossero avvenute negli anni precedenti:

Il  completamento dell’edizione dell’intero corpus delle opere di Boccaccio, con l’uscita del finora illeggibile De montibus e delle poco praticate Genealogie Deorum gentilium, le sempre più raffinate e minuziose ricognizioni sui testimoni manoscritti, autografi e non, compresi gli Zibaldoni e i manoscritti illustrati di tutte le opere di Boccaccio, e i vari sondaggi tesi a rilevare in modo più o meno organico e sistematico, e senza preclusioni di sorta, le componenti della sua cultura e della sua biblioteca hanno contribuito in modo deciso, anche se tumultuoso e frammentario, a modificare l’immagine vulgata della terza “corona”, lasciando riemergere, accanto al profilo del fecondo prosatore e del celebrato codificatore della scrittura novellistica, molti altri profili, appannati dalla maschera stereotipa fissata dalla tradizione, critica e scolastica. Si torna così a riscoprire il perito editore di testi, il filologo, il geografo, l’agiografo, il polemista, il dotto mitografo, il mediatore culturale, il raffinato lettore, il teorico della letteratura, il grafico, il pensatore, se non addirittura, il filosofo .

Si può sicuramente identificare come uno dei più notevoli momenti di svolta, di metodo e di cultura, il Seminario internazionale organizzato a Firenze e a Certaldo (26-28 aprile 1996), sotto l’egida di Vittore Branca, Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura, riscrittura . Vale la pena ricordare qui l’utile premessa del grande studioso, come a fugare anticipatamente la tentazione degli eccessivi specialismi o delle derive massmediatiche tendenti a fare scomparire contestualizzazione storica ed ermeneutica letteraria:

Anzitutto ci sono stati il riacquisto e lo sviluppo di una filologia non più solo ancillare e neppure solo acdotica, ma quale scienza preliminare ad ogni percorso critico a storico. È la nuova filologia totale non attenta solo alla tradizione caratterizzata ma aperta e interessata a quella caratterizzante: la filologia che mira ai testi in tutti i loro plessi e complessi fino all’intertestualià – o meglio alla intercontestualità – e all’ermeneutica, fino alla storia dei testi stessi in senso diacronico, nella loro preparazione ed elaborazione e riscrittura e nella loro stessa metatestualità. È proprio questa filologia, soprattutto nella sua attività di “critica degli scartafacci” e di critica genetica, che può trovare per il Boccaccio una base di documentazione e di spunti eccezionalemente produttivi nei quaderni di appunti e nelle antologie di testi esemplari conservatici nei due Zibaldoni di note, compendi, estratti...

La novità dell’approccio consisteva nell’adozione delle nozioni di struttura e di sistema: ogni singolo testo andava appunto studiato in quanto struttura (o micro-struttura) risultante da una combinatoria di fattori appartenenti a più sistemi (grafico, linguistico, stilistico, tematico, simbolico, ideologico) e in quanto elemento costitutivo del sistema in progress dell’autore. Unità organica, strutturata e strutturante, ogni testo (relativamente al suo livello di elaborazione) veniva considerato come operante in una serie di relazioni all’interno della tradizione testuale dell’autore, nella tradizione dei posteri, rispetto al sistema delle fonti e a quello delle interpretazioni.

Va richiamato senz’altro il magistero di Maria Corti, ricordato nel nostro numero da Fabio Pusterla, che analizza per la loro importanza decisiva, nelle pagine de Il viaggio testuale (1978), e guardando all’insieme del percorso intellettuale della studiosa, i principi teorici e metodologici che hanno fondato la feconda collaborazione tra filologia e semiologia, storia e filosofia, oggigiorno troppo dimenticate nel campo letterario, mentre tra le scienze cognitive la semiologia collabora a ricercare il ‘significato’ delle musica.

Maria Corti nel suo ultimo libro, incompiuto, avrebbe assegnato all’expertise letteraria e alla propria memoria un ruolo insostituibile, oltre al reperire e raccogliere i manoscritti per il Fondo Manoscritti di Pavia da lei creato con passione, quello di suscitare tra le carte le Ombre dal Fondo (1997), di colmare i Vuoti del tempo con il lavoro partecipe dell’immaginazione, con il talento narrativo capace di seguire i percorsi dell’invenzione, con il coinvolgimento emotivo e poetico:

Un’ora di solitudine può vincere i vuoti del tempo, e una vita letteraria lontana si fa d’improvviso presente, è possibile ascoltarne netta la voce in mezzo al brusio contemporaneo. [...] Proust ci avverte che restano tracce, segnali luminosi sufficienti a farci evocare una realtà lontana, i cui particolari lentamente affiorano, qualcosa si ristruttura e a noi capita di meravigliarci che la memoria a nostra insaputa abbia tanto lavorato ad accumulare ricordi negli anni. Si può allora con i fili della propria memoria tessere una tela all’interno del passato letterario, con esiti che pare di avvertire non illusori in quest’epoca della dimenticanza in cui noi si vive, epoca dell’ambiguità dove il paesaggio culturale del passato si fa voce di una vecchia cartolina. [...] Desta davvero inquietudine il gioco con il tempo. Esso nasce dalla sovrabbondanza delle cose del passato: ricordi dai quali siamo sedotti in quanto mancano dagli uomini di oggi, proiettano la loro assenza sul nostro presente e fanno sì che non sappiamo più trovare il luogo appropriato per vivere. Perciò si scrive un libro come questo, dimenticando i vincoli di forma che regolano una esposizione saggiamente discorsiva e critica. La seduzione del passato ci avvia a un genee nuovo di approccio, fatto di altri rapporti, di altra prossimità coi segreti del tempo rincorso. Si avverte qualcosa davanti a cui il potere del passato si fa dominante; e questo qualcosa è la sua assenza, come accade in amore; la mancanza viene ad essere ciò che conta di più nel fondo di noi ed è capace a trasformare la scena del mondo in cui viviamo in un “nessun luogo”. È a questo punto che per una forma di difesa gli eventi del passato scoppiano nella memoria, diveniamo prodighi di ricordi, l’assenza si fa compimento sognante, proprio come in amore, prende vita una pace mentale, prima sconosciuta. Forse ha contribuito l’arrivo del nuovo millennio, l’avvicinarsi dell’ora zero in cui si fanno i bilanci con i vari tempi del vivere, tempi salvati, persi, recuperati.

Pare quindi indispensabile, accompagnare questo numero di «Testo e Senso» con il ricordo di sguardi, di voci, di prese posizioni - dal cinema con Lizzani, alla poesia con Char,  alla filosofia con Gadamer, Ricœur, Derrida - che rimangono ai nostri occhi illuminanti.
Mi sia consentito dunque qualche passo indietro, ma che è un guardare al passato per capire il presente e preparare il futuro!
Nei suoi saggi Notizie dalla crisi (1993) e Ritorno alla critica (2001), Cesare Segre aveva messo in guardia contro un fenomeno già avvertibile - che non ha smesso di dilagare - quello di una sempre più prepotente e demagogica frammentazione e mercificazione del sapere, in ambito accademico e più generalmente culturale (non solo in Italia ma nell’Europa intera), con l’inevitabile marginalizzazione delle discipline letterarie non immediatamente sfruttabili nel mondo dell’informazione e della comunicazione:

In quel libro del 1993 m’interrogavo sulla crisi delle attività speculative e, al suo interno, sulla “crisi anomala” della critica: una crisi non prodotta dall’esaurimento o dal discredito caduto sui metodi, ma da un arresto nell’elaborazione dei metodi stessi e da una specie di disamoramento. Non era dunque indispensabile una revisione dei metodi (però, a proposito di quelli più recenti avanzavo forti riserve e precisazioni), ma una riflessione complessiva sulle finalità della critica fra le attività letterarie. [...] Sono passati sette anni, e la stagnazione continua. Anche accompagnata da scoramento, di fronte ai mutati rapporti di forza tra le attività culturali, e al declino del prestigio, entro queste attività, della letteratura, come interprete e valorizzatrice. È anche affievolito quell’impegno etico, che affidava alla critica il compito di spingersi verso le verità del testo .

Spesso, ormai, nei programmi e nei titoli degli interventi di recenti convegni la tendenza che pare predominare è quella di dare una spazio preferenziale ai risultati di un tipo di ricerca ultraspecialistica (ecdotica, linguistica, grafematica, iconografica...), volutamente circoscritta e configurata per l’oggetto specifico sottoposto ad un’indagine minuziosa che rivendica onestamente e rigorosamente la sua parzialità, ma che sottrae nondimeno il testo alla sua storicità, alla sua genesi etico-sociale. Sicuramente tale atteggiamento corrisponde ad un rifiuto delle storiche battaglie teoriche ed ideologiche dei “padri”, ma c’è pur da temere un grave ristringimento delle prospettive e forse della ambizioni. Con il paradosso che intanto si diffondono operazioni di divulgazione prevalentemente commerciale, come si è visto con produzioni pseudoartitistiche e paraletterarie, generiche ed eterogenee, prone alle mode e culturalmente poco attendibili, alla stregua di alcune messe in circolazione nei giornali o in rete oppure allestite con il pretesto del Centenario di Boccaccio.

Vorrei ricordare appunto la posizione espressa da Raul Mordenti, nel suo intervento Letteratura oggi vent’anni dopo o il Visconte di Bragelonne, al Convegno organizzato a Roma, nel 2002, in memoria di Franca Mariani, altra paladina della semiotica: appunto egli lanciava un ammonimento a non dimenticare il retaggio delle mobilitazioni intellettuali e delle ricerche ispirate alla fede illuministica e moderna nella comprensibilità e trasmissibilità dei testi:

[...] sosteneva quell'ipotesi [...] l'idea forte (illuministica e moderna appunto) della oggettiva conoscibilità del dato, nel nostro caso del testo letterario; tale conoscibilità si poteva realizzare attraverso il meccanismo, illuministico per eccellenza, del disvelamento critico, ed anzi dello smascheramento analitico. Io sarei molto cauto nell'abbandonare senza riserve né residui quell'approccio semiotico, magari sulla scorta delle totalitarie e liquidatorie autocritiche di alcuni "padri fondatori" soprattutto (e non per caso!) francesi, confondendo i suoi cosiddetti “eccessi” con la sua radice di parziale ma permanente verità. Ben diverso, e sia sufficiente qui solo l'accenno, è l'atteggiamento di uno dei fondatori della semiologia italiana, Cesare Segre, che come non condivise mai l'oltranzismo antistorico (non solo antistoricistico) della semiologia letteraria francese, così non condivide oggi la liquidazione della semiotica come possibile apporto conoscitivo alla datità (sempre per lui, e per me, centrale) del testo .

Quella inquietante situazione fu sicuramente sottovalutata o addirittura ignorata dai più nelle sue gravi conseguenze (oggi forse addirittura peggiorata nonostante meritevoli tentativi di aperture «trans-culturali e multiculturali», in determinati settori disciplinari come le letterature comparate, l’antropologia storica, i gender studies...). Ragione per cui Raul Mordenti, un decennio dopo, è voluto tornare più ampiamente sulla complessa problematica nel suo volume recentemente ripubblicato, L’altra critica. La nuova critica della letteratura tra studi culturali, didattica e informatica, sollevando le questioni cruciali della omologazione capitalistica, della dominazione alienante della retorica massmediatica, delle sfide imposte ai concetti di “senso”, di “testo”, di “autore” nell’era dell’informatica globalizzata. A questo coacervo di problemi, a cui Mordenti risponde proponendo «un’altra critica» scientificamente ed eticamente garantita dall’assunzione dell’Alterità, dal recupero delle alterità, delle estraneità, delle differenze storiche, culturali, linguistiche, sociali, è stato dedicato il dibattito presentato nella nostra rivista . In questo tipo di approccio transculturale e transgenere si inserisce la lettura di oggetti insoliti ma carichi di memoria, della poesia del vivere, come le “scarpe”...  

Anche Romano Luperini, che negli stessi anni aveva inteso ridefinire con Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica della letteratura , il compito del critico, e quindi il rapporto tra teoria-critica-letteratura (si trattava allora di proporre, quale reazione e resistenza alla crisi, un’attualizzazione dell’impegno epistemologico ed etico che aveva caratterizzato i periodi di espansione della funzione civile degli intellettuali in seno alla società) ricordando come per Benjamin il critico dovesse essere un filologo-filosofo (dal momento che nell’articolazione dialettica tra commento ed interpretazione, il suo compito era quello di enucleare ed elaborare il “contenuto di verità” del testo), anche lui è tornato di recente, con Tramonto e resistenza della critica , a mettere sotto i riflettori la crisi della pratica letteraria abbinandola a quella della condizione intellettuale, entrambe minacciate dall’impotenza gnoseologica, dall’instabilità sociale, dalla precarietà economica, dalla subalternità politica che fanno svanire ogni possibilità di autonomia, di resistenza e di conflitto con delle forze sovrastanti del potere politico-economico, nel confronto con altre culture e identità non circoscrivibili e controllabili:

La grande letteratura moderna non fa che rendere più evidente e radicale qualcosa che era percepibile anche nella letteratura antica e medievale: e cioè che il discorso letterario è sempre aperto, in fieri, e si realizza solo attraverso la collaborazione del lettore che, dandogli senso, ogni volta torna a definier insieme il significato dell’opera e quello della vita. Le opere, soprattutto ma non solo quelle moderne, sono sempre costruzioni da completare. Da questo punto di vista ridurre la critica a specialismo asettico, a descrizione retorica o tecnico-formale, e non meno esiziale – per la critica ma anche per il senso della letteratura – che ridurla ad autobiografismo narcisistico o a una mistica oracolare. Indossare il camice bianco dello scienziato o il manto del critico-vate e dell’artifex additus artifici significa rinunciare alla nostra funzione, e cioè alla produzione sociale di senso attraverso la lettura, la interpretazione e il ri-uso critico dei testi .  

Proponiamo quindi con questo numero una serie di riflessioni che, fin dai tempi di Dante, Petrarca e Boccaccio, non hanno probabilmente mai trovato una risposta esauriente e definitiva sulla funzione della letteratura e sulla possiblità d’intenderla e di narrarla.



Lucia Battaglia Ricci, Boccaccio, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 7. Il libro propone un’attenta e completa mappatura delle varie dimensioni dell’opera di Boccaccio, ripercorse attraverso un paesaggio in continua mutazione. Si veda anche la ricca bibliografia ragionata.

Gli Zibaldoni di Boccaccio. Memoria, scrittura, riscrittura, Atti del Seminario internazionale di Firenze-Certaldo (26-28 aprile 1996), a cura di Michelangelo Picone e Claude Cazalé Bérard, Firenze, Franco Cesati Editore, 1998.

Ivi, p. 6.

Cesare Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993; ID, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, p.VII.

Raul Mordenti, Letteratura oggi vent’anni dopo o il Visconte di Bragelonne, in Letteratura: percorsi possibili. Vent’anni dopo, (dedicato a Franca Mariani), a cura di Fiorenza Luotto e Marisa Scognamiglio, Udine, Goliardica, 2003, pp. 9-22.

Raul Mordenti, L’altra L’altra critica. La nuova critica della letteratura tra studi culturali, didattica e informatica, Roma, Editori Riuniti, 2013 (Meltemi, 2007); il volume era stato preceduto dallo studio  appartenente all’esperienza didattica Che cosa è la critica letteraria? Dagli appunti delle lezioni, Roma, Aracne, 2006.

Romano Luperini, Il dialogo e il conflitto. Per un’ermeneutica della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999

Romano Luperini, Tramonto e risistena della critica, Macerata, Quodlibet, 2013. Il terzo paragrafo del primo capitolo Insegnare la letteratura oggi è in linea sul sito diretto da R. Luperini: http// www.laletteraturaenoi.it

Ibidem.