Elena Porciani

Graziella Bernabò, La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Roma, Carocci, 2012, 339 pp., € 24,00.

Spicca tra le varie iniziative nel centenario della nascita di Elsa Morante l’uscita di questo volume che colma una lacuna della bibliografia sull’autrice: per la prima volta siamo di fronte a una biografia letteraria in cui, unendo ricerca di archivio, materiale critico e interviste ad amici e parenti, Graziella Bernabò ha ricostruito la vicenda esistenziale di Morante collegandola alle sue opere. E l’intento di ripercorrere il percorso di «una figura di donna e di poeta che nulla di sé negò alla vita come alla scrittura, pagando di persona il suo essere estrema e assoluta» (p. 325) si distribuisce in sette capitoli scanditi cronologicamente secondo le trame parallele del vissuto e della letteratura, accompagnati da una Premessa e dalle Conclusioni in cui più chiaramente si definisce il programma metodologico dell’operazione.

Un primo merito del libro è rappresentato senz’altro dall’unire i due corni della ricezione di Elsa Morante, quello morantiano e quello morantista. Da una parte il libro si inserisce nel clima (morantiano) di amore e ammirazione verso una donna senza dubbio eccentrica e aspra, ma non meno straordinaria e capace di grandi slanci affettivi, inestimabilmente stimolante per chi l’ha conosciuta e per chi, a ventisette anni dalla morte, continua a leggerla: come afferma in apertura della Premessa, Bernabò ha consapevolmente messo in atto «un approccio critico che non sia esclusivamente tecnico, restando per il resto avaro di sé; ma che implichi anche una forte adesione emozionale» (p. 11), senza che questo, però, abbia significato indugiare nel tributo celebrativo della persona della scrittrice. D’altro canto, si riscontra nella Fiaba estrema anche un impegno da studiosa (morantista) dei testi: la ricostruzione degli episodi non si esaurisce in un mero racconto biografico, ma, con un sistematico e aggiornato riferimento alla critica, Bernabò cerca di scavare nel nesso tra vita e scrittura di Morante, tanto più che esse «risultano sempre legat[e] alla sua vita, anche se mai risolt[e] in un piano direttamente autobiografico» (p. 14), come già Moravia aveva suggerito. L’avvertita compartecipazione all’orizzonte critico morantiano è evidente sin dai primi capitoli, in cui – ed è un secondo merito del volume – si percepisce un’attenzione inedita al periodo giovanile e alla maturazione già in quegli anni di «alcuni nuclei tematici che sarebbero stati poi alla base della sua scrittura» (p. 27), come il conflitto tra grâce e pesanteur, le cui radici, come giustamente Bernabò rileva, non si possono confinare nella crisi degli anni sessanta.

Il doppio passo della studiosa – la passione di morantiana e la consapevolezza di morantista – non è esente però da rischi. Se innegabile è il valore divulgativo del saggio che fa da bussola a un lettore comune desideroso di avere un quadro di insieme dell’itinerario letterario-esistenziale di Morante, a chi è più addentro al mondo compositivo della scrittrice le parti sui testi appaiono senz’altro meditate e ordinate con cura, ma troppo debitrici di risultati critici già consolidati piuttosto che il frutto di un personale apporto critico-letterario. Del resto, Bernabò ha espresso l’originalità del proprio intervento soprattutto nelle conseguenze della metodologia neofemminista osservata. La fiaba estrema nasce infatti nell’alveo della vicinanza della sua autrice al gruppo di studiose della Comunità di storia vivente, che si occupa in prevalenza di biografie di donne del passato con un approccio volto «a delineare le reti relazionali, non solo pubbliche ma anche e soprattutto affettive, del soggetto/oggetto della ricerca» e quindi in grado di consentire «una maggior comprensione e valorizzazione delle donne, solitamente dedite più degli uomini alla cura dei rapporti; e soprattutto nel caso di quelle meno presenzialiste come Elsa Morante, che […] viveva la pratica della scrittura e della riflessione intellettuale all’interno dei legami di amicizia piuttosto che sugli scenari pubblici» (p. 13).

Tuttavia, ricondurre la conflittuale appartenenza femminile dell’autrice, che costituisce, non a caso, uno dei punti più spinosi e controversi per la sua interpretazione, a una prospettiva così schierata apre uno scenario più problematico del previsto. Questo, per esempio, accade già quando, a commento del celebre brano del 1960 in cui l’autrice riconduce la distinzione tra scrittori e scrittrici, simile a quella tra «autori biondi e bruni, grassi e magri», alla «società degli harem» (citato a p. 59), Bernabò scrive che «negli anni sessanta, la posizione della Morante era comprensibile e motivata. Quel che più conta, comunque, è il fatto che, sul piano della scrittura, Elsa mostrò sempre di rappresentare con coerenza, coraggio e originalità un universo a misura di donna» (p. 60). Non è subito chiarissimo che cosa si debba comprendere in questo universo, ma poi, come più distesamente Bernabò afferma nelle Conclusioni, finisce per avervi diritto di cittadinanza soprattutto la simpatia di Morante «per un femminile arcaico, semplice e oblativo» (p. 284) che si traduce nell’opera nella «straordinaria rappresentazione di donne materne, tradizionali e, per molti aspetti, perdenti, ma anche grandissime e quasi sacrali nella loro capacità di amore e generosità» (p. 286), mentre nella sua vita, al di là delle dichiarazioni di facciata, la si riconosce nella «volontà di conservare, comunque, un atteggiamento e una pratica di grande disponibilità agli altri e al mondo» (p. 285).

Una simile riduzione del femminile al materno rischia però di tradire lo stesso riferimento a Luisa Muraro che per Bernabò costituisce un auctoritas della propria argomentazione, e cioè l’idea della storica femminista italiana che «la libertà femminile, oggi, sta su un crinale che emerge, detto in breve, tra l’ideale oblativo, da una parte, e l’individualismo, dall’altro», del modello maschile (citata a p. 286). Se secondo Muraro l’adozione di una delle due alternative sarebbe mutilante, laddove è rimanere sul crinale che fa la libertà, Bernabò riconosce sì la tensione di Morante tra «il desiderio di porsi come uguale all’uomo nella vita e nella scrittura, da un lato, e la generosa attrazione agli altri e al mondo nel suo complesso, dall’altro» (ibid.), ma poi risucchia la scrittrice al di qua della soglia della dialettica dei generi nel momento in cui non esplora le conseguenze testuali di un crinale che si può leggere anche in chiave transgender. Perché, in definitiva, la specificità di Morante non è solo di essere una donna del passato, ma di essere stata una donna scrittrice e questo ancora chiediamo ai saggi che si occupano di lei, anche biografici: un passo in più nell’itinerario ermeneutico, nell’esplorazione di quelle dinamiche di scrittura che ancora ci interessano più della personalità espressa nelle relazioni affettive e intellettuali.