Antonio Perri

Recensione a Histoire de l’écriture. De l’idéogramme au multimédia, sous la direction de Anne-Marie Christin, Paris, Flammarion 2012 (seconda edizione aumentata)

È noto che i titoli dei libri esemplificano quasi sempre un “condensato” di aspettative per il potenziale lettore (il linguista e il semiologo ricorderanno certamente la nozione di condensazione così come Greimas la tratteggiò in Semantica strutturale): talora gli lanciano allusive “strizzatine d’occhio”, stimolandone la curiosità e il lavorio inferenziale con sintagmi reticenti (accade molto spesso nel caso dei romanzi, o della fiction in genere, ma da qualche decennio in qua è prassi affermatasi anche in ambito saggistico); altre volte ricorrono a formule o stilemi consolidati e canonici, veri e propri “marchi di genere” destinati a confermare le scelte e rafforzare il giudizio.

Storia della scrittura, da questo punto di vista, è indiscutibilmente un titolo abusato e quasi logoro – basta confrontarlo con quello molto più originale di altri volumi destinati, peraltro, a raggiungere una grandissima diffusione e notorietà come La scrittura e la differenza[1], ad  esempio – poiché rinvia  inesorabilmente il lettore a un impianto evoluzionista e alfabetocentrico spesso confermato dal sottotitolo: di solito qualcosa come Dalla pittografia all’alfabeto (o simili)[2]. Ma nel caso che ci occupa, insolitamente, la medesima struttura sintattica “evolutiva” – da… a… – chiama in causa da un lato proprio il termine che per più di due secoli ha “ipnotizzato” l’Occidente – Roy Harris ha parlato a giusto titolo di “allucinazioni ideografiche”[3] – nei suoi tentativi di comprendere i sistemi grafico-notazionali di culture “altre” (ideogramma),  dall’altro il termine che negli ultimi trent’anni ha sancito la definitiva trasformazione “rivoluzionaria” – se dobbiamo dar ragione a Gino Roncaglia[4] – delle stesse modalità di esistenza (e manifestazione) dei testi (multimediale, multimedialità).

Il fatto testimonia chiaramente che la Storia del corposo volume (416 pagine) curato da Anne-Marie Christin risponde a un progetto diverso, e ubbidisce a presupposti almeno parzialmente innovativi. Ne cito subito due, entrambi degni di nota: anzitutto si abbandona il concept dell’opera di sintesi concepita da un solo autore (per forza di cose specialista di un’unica tradizione scrittoria, dunque necessariamente approssimativo o lacunoso nel presentare le altre), privilegiando un impianto “enciclopedico” che vede la partecipazione di più specialisti-autori – ben 54, quasi tutti francesi o francofoni ma ciascuno interpellato per illustrare il proprio ambito tematico[5]; in secondo luogo – e ancora una volta a dispetto della formula presente nel sottotitolo – si adotta un criterio di presentazione “tematico” e non evolutivo, che semmai nella prima parte del testo (dal generico titolo Origines et réinventions) separa le tradizioni per phyla su basi storico-geografiche[6].

Vale la pena chiedersi subito perché la nozione di ideogramma assuma un ruolo di primo piano nell’impostazione complessiva del volume. Come spiega la curatrice nell’introduzione (De l’image à l’écriture, pp. 9-14), accennando a  tesi sviluppate in altri suoi lavori[7], si tratta di mettere in luce la comune matrice di figura e scrittura che condividono un medesimo supporto o “schermo”, articolando in modi diversificati tale spazio di inscrizione e subordinandolo (o meno) alla linearità del verbale. Sin qui, il progettista grafico o lo storico delle tecnologie troveranno congeniale un approccio che privilegia la dimensione visiva della scrittura nell’ambito del più ampio “dominio delle immagini”[8]; il problema, tuttavia, sorge nel momento in cui l’autrice non si pone l’obiettivo di analizzare a fondo la variabilità culturale di quella “costante formale” spaziale,  la quale peraltro (ogni buon operatore grafico ne è consapevole) non si può mai concepire come un “vuoto” di senso, un’assenza – sorta di controparte visiva del silenzio nella dimensione verbale orale, come ebbe ad esprimersi Mallarmé – ma è al contrario articolazione spaziale non-lineare o sinsemica[9] che dà forma a contenuti (anche) linguistici sulla base di convenzioni notazionali visive e, dunque, di uno spazio sinottico culturalmente “pieno”. Inoltre per Christin l’esistenza di uno spazio-schermo pluridimensionale, nel quale si sviluppano le relazioni fra unità-figure, va necessariamente di pari passo con la comparsa dell’ideogramma quale “segno da interrogare” perché intrinsecamente polisemico e variabile – e, proprio in virtù di tale aspetto, diverso tanto dalla lettera dell’alfabeto quanto dal pittogramma banalmente iconico: il modello di riferimento, ovviamente, è ancora una volta quello del carattere cinese che può assumere “tre valori verbali differenti” (logogramma, fonogramma o “chiave”, vale a dire determinativo semantico). Si tratta, a ben vedere, di un’argomentazione poco convincente: rischia infatti di avallare la (falsa ma diffusa) conclusione che l’alfabeto sancisca il definitivo divorzio della notazione grafica dalla “polifunzionalità” e “polisintatticità” postulate come originarie, in un certo senso “laicizzando” quella pulsione al trascendente (la divinazione) e allo scambio con l’“aldilà” da cui hanno preso forma i sistemi storici più noti (Mesopotamia, Egitto e Cina) – conclusione implicitamente rafforzata dal titolo scelto per la terza parte del volume, L’image dans l’écriture en Occident. Il punto, insomma, è che non solo tradizioni scrittorie come quella cinese hanno saputo proporre una chiara (e del tutto razionale) analisi della relazione fra contesto grafico di inscrizione e valore del carattere, ma di fatto ogni sistema di scrittura prevede e organizza la costruzione degli spazi grafico-visivi secondo orientamenti pragmatici che in nessun caso appiattiscono tout court la rappresentazione grafica sulla struttura linguistica: anche la “civiltà dell’alfabeto”, insomma, ha compreso e interiorizzato da millenni che gli stoicheia di cui fa uso sono in fondo manifestazioni (variabili) di valori linguistici selezionati dalla messa in forma di spazi testuali significanti. La scrittura, così, non cessa mai davvero di essere immagine anche quando supera la “soglia” (grafica) che la rende un (apparente) meccanismo di trasposizione del parlato; anzi, proprio accettando la tesi di fondo di questa Histoire, elaborata sulla falsariga di un’affermazione di Paul Klee riferita all’arte – l’écriture ne reproduit pas la parole, elle la rend visible – si finisce inevitabilmente per accettare una visione dello scritto che lo sottrae una volta per tutte (anche nel caso degli alfabeti!) alla distorta versione aristotelica della “rappresentazione dei suoni del parlato”[10].

Eppure, come si evince dal titolo scelto per la seconda parte del testo – Alphabets et écritures dérivées – persiste nelle intenzioni del curatore la volontà di considerare l’alfabeto come un sistema “a parte”; ma interessante è sia il fatto che si parli di alfabeti, al plurale (non limitandosi cioè alla ormai frusta trafila storica che ha condotto sino al trionfo dell’alfabeto latino), sia che in questa sezione si faccia rientrare l’arabo e le altre scritture semitiche – con una presa di posizione tranchant sul problema della natura linguistica di tali scritture, considerate una volta per tutte alfabeti consonantici e non meri sillabari “imperfetti”[11] – sia, infine, che ci si occupi di tradizioni considerate per molti aspetti “minori” e isolate (come le rune e la scrittura ogamica, ad esempio, o i sistemi nati in Africa subsahariana).

La terza parte del volume, lo si è detto, contiene la chiave interpretativa dall’assunto teorico di base proposto da Christin: se l’alfabeto, scrittura “cieca” in cui saper leggere equivale a decifrare, ha davvero rotto i suoi originari legami con il visibile dell’immagine, allora è necessario concentrarsi sui concreti prodotti grafici della società occidentale a partire dal Medioevo per tracciare una fenomenologia dettagliata dei rapporti fra immagine/figura e scrittura considerati ormai, in linea di principio, quali universi del tutto distinti. Solo così è davvero possibile rendersi conto di come questa separazione non sia mai davvero scontata né definitiva nelle pratiche scrittorie occidentali, poiché ritroviamo invariabilmente la dimensione dell’immagine come “presenza”, voluta da scriventi che si sono dedicati consapevolmente alla “riconquista della leggibilità che avevano perduto con l’adozione di questa specie di astrazione grafica della voce, per tutto il corso dei venti secoli in cui si sono affidati ad essa come a una guida unica del loro pensiero nell’ambito della scrittura”[12].  È ovvio, alla luce di quanto abbiamo argomentato, che appaia eccessiva e davvero sommaria tanto la definizione (sia pure in negativo) dell’alfabeto come “astrazione grafica della voce” o, altrove, “scrittura della mancanza e dell’assenza, perché nulla di ciò che consente di nominare risulta immediatamente accessibile attraverso di essa”[13], quanto l’idea stessa di una totale eclisse della dimensione visiva semanticamente (anche se il più delle volte non iconicamente) leggibile. Peraltro proprio in questa sezione i vari contributi storico-descrittivi, la cui qualità nel complesso dell’opera appare diseguale, sono arricchiti da brevi “commenti a immagini di grande valore” – il Libro di Kells, un manoscritto di regia teatrale medievale, alcuni manoscritti letterari moderni e contemporanei, i libri di pittori e la poesia visiva – che proprio per la loro vocazione analitica incentrata sul prodotto si rivelano eccessivamente sacrificati. Lo stesso può dirsi delle “schede” su aspetti davvero essenziali relativi alla diffusione della scrittura come quelli sociali e pragmatici: nella forma di brevi saggi o testi ad hoc, esse compaiono esclusivamente nella terza parte del volume ma sono per lo più redatte da alcune firme d’eccezione (come quelle di Petrucci, Chartier, Fraenkel o ancora quella di Henri-Jean Martin cui peraltro è affidato il compito di “fare il punto”, in meno di venti pagine, sull’evoluzione della stampa in Occidente). In effetti nel complesso – fatto forse non troppo grave per il linguista ma che si rivela una grave lacuna per il type designer, il quale vi troverà motivo di disappunto –  lo sviluppo dei saggi che affrontano problemi legati alla tipografia appare alquanto sommario: l’esigenza prioritaria di ritracciare anche in quest’ambito i rapporti fra scrittura e immagine (ad esempio nei manifesti, nella tipografia per l’infanzia o nei testi di poesia visiva) impedisce di affrontare il problema della costruzione tipografica dello spazio testuale come immagine, mentre anche la storia delle forme tipografiche in Europa è ridotta ai brevissimi e banali accenni del testo di René Ponot (solo due pagine e mezzo!).

La nuova edizione, purtroppo, non ha posto rimedio a queste lacune tentando semmai colmarne due ulteriori, del tutto differenti. La prima è relativa alle “origini”, e ridiscute il ruolo assunto dai grafismi preistorici nel successivo processo di “emersione” delle scritture “propriamente dette” grazie a un saggio forse non del tutto esaustivo ma equilibrato e ben illustrato di Denis Vialou (nel quale colpisce, altre alla flessibilità terminologica, l’idea del tutto originale dell’inscritto [inscrit] come manifestazione che precede lo scritto, in singolare consonanza con la recente tesi di ascendenza “derridiana” formulata da Maurizio Ferraris quando sostiene che nello sviluppo delle pratiche di registrazione “la comunicazione non è un prius della costruzione della realtà sociale, ma dipende dalla registrazione”[14], ovvero dalla traccia). L’altra lacuna, stavolta ubicata al termine del volume, affronta il tema attualissimo della trasformazione indotta sulla e nella scrittura dall’evoluzione dei media digitali: Yves Jeanneret la sviluppa però in un saggio che sembra trascurare un po’ troppo il problema delle nuove e molteplici attività scrittorie indotte dalle trasformazioni tecnologiche – al di là della condivisibile constatazione di un rafforzato legame “fra spazio della scrittura e spazio della pratica”[15].

Un dato tipografico e merceologico non irrilevante – che cito solo ora proprio perché non dovrebbe (ma spesso non è così) influenzare le scelte di acquisto di un libro – è il bellissimo e ampio corredo iconografico di foto a colori che arricchisce le pagine di grande formato di questa Histoire de l’écriture; alla luce di tali caratteristiche, anzi, il prezzo di copertina appare davvero conveniente se confrontato con quello di molti prodotti italiani di pari livello.

Dal punto di vista teorico, infine, val la pena di riflettere su un problema di fondo che volumi come questo contribuiscono a sollevare: cosa rimane infatti della Storia della scrittura ove si rinunci a una “grande narrazione” unificante (come quella della grammatologia di Gelb, ad esempio)? L’approccio promosso dalla Christin, con tutti i suoi limiti, può davvero essere un’alternativa valida alle screditate posizioni evoluzionistiche?

Forse la soluzione, almeno a mio avviso, sta in un vero e proprio “cambio di genere”: è necessario abbandonare il modello di storia a vocazione descrittiva-strutturale incentrato sulla notazione, che rischia di diventare particolarismo storicista ove si rifiutino le teorie “forti” peraltro ancora vive e tenaci (basti pensare alle sistematizzazioni tipologiche comuni nella vulgata linguistica contemporanea), risolvendosi ad adottare una volta per tutte una prospettiva orientata in senso decisamente pragmatico e antropologico[16]. Al posto dell’“internal structural evidence” di gelbiana memoria, insomma, bisognerà privilegiare lo studio delle concrete pratiche di scrittura e grafismo (viventi e in atto, o ricostruite alla luce di un’analisi sociologicamente orientata). Si tratta, a dire il vero, di un orientamento che il volume coraggiosamente propone ma solo in relazione alla tradizione alfabetica occidentale e per alcune fra le scritture antiche più note (cuneiforme, egizio…), rinunciando a sviluppare un approccio simile per la maggior parte degli altri sistemi notazionali. Due casi emblematici possono chiarire il senso di questa mia valutazione. Il primo: nel descrivere il sistema di scrittura rongorongo in uso presso l’Isola di Pasqua Michaël Guichard si limita a notare che “sulle tavolette [i segni] sono allineati regolarmente da sinistra a destra”, aggiungendo che “è necessario sovesciare la tavoletta al termine di ciascuna riga di testo, dal momento che le righe pari sono scritte al rovescio in rapporto a quelle dispari, secondo il procedimento bustrofedico”[17]. Credo che un approccio come quello che ho proposto dovrebbe chiarire meglio da un lato che si tratta di un bustrofedico rovesciato – ben diverso, cioè, da quello che ritroviamo nelle tradizioni mediterranee arcaiche, ad esempio – ma soprattutto spiegare perché lo spazio di scrittura è organizzato in questo modo: l’ipotesi che ho formulato altrove, peraltro – “un setting recitativo duale… con due sacerdoti … seduti uno di fronte all’altro ai due lati del manufatto scritto e che si alternano rigo dopo rigo nella lettura di formule in parte note e prevedibili”[18] – consente di giustificare la stranissima mise en page del testo pasquense alla luce di un valore funzionalmente coerente con gli scopi espliciti dell’evento scrittorio. Traggo invece il secondo esempio dal breve contributo di François-Xavier Dillmann dedicato alla scrittura runica, in cui l’autore afferma sbrigativamente che “la forma della maggior parte dei segni runici si ispira manifestamente a quella dei caratteri della scrittura latina, fatto che ben si accorda con i dati relativi all’influsso esercitato dalla civiltà romana in Scandinavia – e più in particolare in Danimarca – nei primi secoli della nostra era”[19]. Limitarsi a indicare una generica ascendenza “latina” dei caratteri dell’alfabeto runico significa trascurare del tutto un’attenta analisi formale del tracciato tipico di singole lettere (che lascerebbe propendere piuttosto, a giudizio di quanti si sono occupati del problema di recente, per un’origine delle rune da una grafia alfabetica venetica di tipo “cadorino”), ma soprattutto rinunciare a una più approfondita e antropologicamente motivata disamina degli usi – nel caso specifico funzionali “alla valorizzazione degli oggetti [prevalentemente di impiego bellico] destinati o allo scambio prestigioso o all’offerta votiva nelle paludi e nelle stipi scandinave” – che condizionarono l’itinerario di diffusione del sistema verso le regioni del nord Europa e, soprattutto, le dinamiche del suo insegnamento (ossia l’insegnamento in ambiente religioso)[20].

Nell’ambito della sua teoria integrazionale della scrittura, Roy Harris ha sottolineato come attribuendo un’importanza primaria e decisiva alle circostanze reali della comunicazione scritta rispetto all’analisi dei sistemi di (spesso ipotetiche) correlazioni astratte tra segni scritti e unità del parlato si possa addirittura giungere (conclusione che, a dire il vero, giudico estrema ed eccessiva) a rifiutare del tutto qualunque riferimento esplicito a segni, codici e sistemi di significazione già dati – ritrovando, paradossalmente, proprio quel signe flottante dal quale Christin è partita per costruire la propria ipotesi interpretativa. Harris, così, si limita a sostenere che “qualunque configurazione grafica acquisisce un determinato valore linguistico nella misura in cui serve a creare l’integrazione tra una specifica forma di attività verbale e un’altra, o tra attività verbali e attività non verbali[21]. Le “storie delle scritture” a venire – e l’Histoire curata da Anne-Marie Christin rappresenta un primo passo, ancora timido e incerto, in questa direzione – dovranno necessariamente trarre partito da tale suggerimento, posto che per analizzare e classificare qualunque testo scritto – pur individuandone, in definitiva, norme e costanti – diviene comunque inevitabile occuparsi delle determinanti sociali connesse agli usi e alla circolazione dei messaggi (scritti), nonché delle prassi (verbali e non verbali) integrate alla produzione di quei testi all’interno delle diverse società umane.


[1] Titolo italiano di un testo-chiave di Jacques Derrida (Torino, Einaudi, 1971) che traduce “alla lettera” l’originale francese L’écriture et la différence, Paris, Seuil 1967.

[2] Più modestamente (almeno in apparenza, visto che nel titolo Story è preceduto dall’articolo determinativo), e in ossequio a una vena “descrittiva” che dagli anni ottanta del secolo passato ha preso decisamente il posto di quella evolutiva, il sottotitolo del testo di Andrew Robinson The Story of Writing, London, Thames and Hudson 1995, è Alphabets, Hieroglyphs and Pictograms (una sorta di sequenza evolutiva rovesciata, in definitiva).

[3] È il titolo di uno fra i capitoli più polemici (il sesto) di Roy Harris, La tirannia dell’alfabeto, Viterbo, Stampa Alternativa & Graffiti 2003, pp. 155-76 (ediz. originale Rethinking Writing, London, Athlone Press 2000).

[4] Il quale peraltro si limita a far riferimento alle sole trasformazioni dell’oggetto-libro (cfr. Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, Roma-Bari, Laterza 2010), laddove il discorso sviluppato da Yves Jeanneret nel testo curato da Anne-Marie Christin (Écriture et média informatisées, pp. 395-402 del volume) abbraccia l’intera fenomenologia degli écrits d’écran.

[5] Si tratta di un numero di collaboratori relativamente elevato, soprattutto se lo confrontiamo con i 79 del ben più ambizioso, ampio (più di 900 pagine!) e “accademico” volume anglosassone curato da Peter T. Daniels e William Bright, The World’s Writing Systems, New York-Oxford, Oxford University Press, 1996, ad oggi il più esaustivo reference book sul tema dei sistemi di scrittura.

[6] A un’organizzazione simile ricorre anche il testo curato da Daniels e Bright, che vi premettono però una sintetica cornice teorica ispirata alle posizioni evoluzioniste della grammatologia di Gelb; un po’ diversa la scelta di Albertine Gaur, A History of Writing, London, The British Library 1984, la quale dedica un capitolo generale ma non di orientamento evolutivo all’“origine e sviluppo della scrittura”, per poi discutere dei principali “gruppi” individuati su basi geografiche e storiche. Quanto a Robinson, dopo una prima parte introduttiva su “come funziona la scrittura” organizza la sua rassegna distinguendo le scritture “estinte” da quelle “viventi”. Nel volume curato dalla Christin, peraltro, fanno finalmente la loro comparsa le scritture mesoamericane (maya, azteca-nahuatl, mixteca), considerate come altrettante tradizioni degne almeno in parte di un’analisi approfondita: se alla scrittura mixteca è dedicata soltanto una brevissima analisi “di caso” redatta da Martine Simonin, infatti (che alle pp. 196-197 si occupa del manoscritto Aubin n. 20), la scrittura nahuatl e quella maya sono analizzate in modo maturo ed esaustivo da Marc Thouvenot (pp. 187-195) e da Michel Davoust (pp. 177-186). Si tratta forse di una scelta che tiene conto dei risultati raggiunti dalla vivace scuola francese di studi americanistici, ma appare tanto più degna di nota se la  si confronta con il trattamento riservato a queste scritture nel testo a cura di Daniels e Bright, nel quale a Maya and Other Mesoamerican Scripts è dedicato soltanto un breve saggio di appena dieci pagine scritto da Martha J. Macri (pp. 172-182).

[7] In  particolare Anne-Marie Christin, L’image écrite ou la déraison graphique, Paris, Flammarion 1995 (nuova ediz. 2009); Anne-Marie Christin, Poétique du blanc. Vide e intevalle dans la civilisation de l’alphabet, Paris, Peeters/Vrin, 2000 (nuova ediz. Vrin, 2009); L’invention de la figure, Paris, Flammarion, 2011.

[8] Il riferimento è al bel libro di James Elkins The Domain of Images, Ithaca (ny), Cornell University Press, 1999.

[9] Il termine è stato coniato e utilizzato da Giovanni Lussu e da me ma la sua formulazione più matura in senso progettuale è quella che si può apprezzare nel recentissimo libro di Luciano Perondi, Sinsemie. Scritture nello spazio, Viterbo, Stampa alternativa & Graffiti 2012.

[10] “Ora, i suoni che sono voce sono simboli delle affezioni che sono nell’anima, e i segni scritti lo sono dei suoni che sono nella voce. E come neppure le lettere dell’alfabeto sono identiche per tutti, neppure le voci sono identiche”, Aristotele, Perì Ermēneías, 16a; cfr. Id., Della interpretazione, Milano, Rizzoli 1992, p. 79. Sull’importanza di questa concezione per le teorie della scrittura moderne cfr. Roy Harris, La tirannia dell’alfabeto, cit., pp. 38-43; sulla sua natura “mistificante” cfr. Giovanni Lussu, Antonio Perri, La scrittura e paradossi del visibile, «Il Verri», a. xliv, n. 10-11, novembre 1999, pp. 52-62.

[11] Com’è noto la definizione delle scritture semitiche come sistemi sillabici (ma privi di indicazioni relative alle vocali) è stata argomentata con forza da Ignace J. Gelb, A Study of Writing, Chicago, University of Chicago Press, 19632 (trad. it. Teoria generale e storia della scrittura, Milano egea, 1993).

[12] Anne-Marie Christin, Présentation. De l’image à l’écriture, p. 13 del volume.

[13] Anne-Marie Christin, Poétique du blanc, cit. p. 10. Ancora una volta è evidente in affermazioni come questa l’influsso di una concezione astorica e ideologica della scrittura “di idee” come scrittura perfetta.

[14] Cfr. Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, Laterza 2009, p. 198. L’idea di Ferrarirs è indubbiamente originale, anche se in verità non sottoscrivo né l’impianto complessivo “neorealista” dell’ontologia proposta dall’autore (è, anzi, l’idea di riproporre una prospettiva filosofica ontologica che mi lascia perplesso) né le conclusioni forse un po’ azzardate che l’autore trae da un uso disinvolto delle ricerche di neuroscienziati come Stanislas Dehaene; scrive Ferraris: “Abbiamo torto a pensare che la scrittura sia trascrizione della voce, o imitazione delle cose, i due grandi paradigmi con cui si spiega la nascita della scrittura” (p. 224). E sin qui, pienamente d’accordo. Ma aggiunge subito dopo: “si dovrà invece pensare che la scrittura non è che la risposta a caratteristiche presenti nel cervello dell’uomo e di alcuni primati… Sembra evidente che la scrittura possiede un radicamento naturale, nel senso che le nostre menti non solo si rappresentano come scrittura, ma sono predisposte per selezionare scritture”. Conclusioni come questa, alla luce di un sano culturalismo relativista, sembrano frutto di un salto speculativo francamente eccessivo.

[15] Yves Jeanneret, Écriture et média informatisées, p. 401 del volume.

[16] Quella, per intenderci, abbozzata più un quarto di secolo fa dalle pionieristiche opere di Giorgio Raimondo Cardona ma non più sviluppata in modo sistematico dopo la prematura scomparsa dello studioso. Cfr. in particolare Giorgio Raimondo Cardona , Antropologia della scrittura, Torino, Loescher 1981 (nuova ediz. Novara, Utet Università 2009); Giorgio Raimondo Cardona, Storia universale della scrittura, Milano, Mondadori 1986.

[17] Michaël Guichard, Les rongo-rongo: l’écriture pascuane, p. 201 del volume.

[18] Cfr. Antonio Perri, Evento linguistico vs evento scrittorio: verso un nuovo modello, in «Rivista di psicolinguistica applicata», vii, 3, 2007, pp. 125-143 (la citazione è a p. 130).

[19] François-Xavier Dillmann, L’écriture runique, p. 279 del volume.

[20] Cito dal saggio di Marco Mancini La “via del ferro” alle rune: nuovi materiali sulle origini della scrittura germanica, in corso di stampa in un volume dedicato a Federico Albano Leoni.

[21] Roy Harris, La tirannia dell’alfabeto, cit., p. 224 (cvo. nel testo).