Raul Mordenti

Recensione a Albrecht Dürer, Quattro libri sulle proporzioni umane (a cura di Giuditta Moly Feo) Introduzione, testo e traduzione a cura di Giuditta Moly Feo, 2 tomi, Bologna, Bononia University Press, 2007, pp. cxvi-450-184, s.i.p.

In una elegante e accurata pubblicazione della Bononia University Press (che ripropone utilmente, nel secondo tomo, anche tutte le tavole dureriane), Giuditta Moly Feo ha curato l’edizione di uno dei testi-chiave della storia dell’arte e, più in generale, dell’umanesimo europeo. Si tratta del libro che Albrecht Dürer (1471-1528) ha dedicato alle umane proporzioni, che vide la luce a stampa pochi mesi dopo la sua morte e che da allora conobbe (et pour cause!) numerose edizioni e traduzioni in tutta Europa: in latino (ad opera del Camerarius: 1532-4, 1557), in francese (1557, 1613, 1614), in italiano (Gallucci 1591 e 1594, ma dalla versione latina, non da quella originale tedesca), in olandese (1622), per non dire delle ristampe tedesche.

In realtà, secondo la Moly Feo, i Vier Bücher di Dürer danno inizio a una significativa fioritura di trattati sull’arte; nel solo cinquantennio dal 1528 al 1578 la studiosa segnala la comparsa in Germania di moltissime opere del genere, tutte destinate agli apprendisti: sette diversi libretti dedicati alla geometria, alla matematica, all’architettura, alla teoria del movimento, altri sei dedicati specificamente alla prospettiva e l’opera di Walter Rivius (“uno dei testi fondamentali per il tardo Rinascimento tedesco”: p.xc) che ripropone Vitruvio, commentandolo e rifondendo fonti italiane e tedesche.

La destinazione di tali libri di istruzione agli apprendisti dell’arte e dell’artigianato è un fatto da tenere nel massimo conto: segnala in modo evidente la rivoluzione rinascimentale, che (come ogni rivoluzione) sente imperiosamente l’esigenza di spezzare l’assetto chiuso del sapere e del saper fare, e dunque si concentra su nuovi destinatari utilizzando nuove modalità di trasmissione delle conoscenze. Assai significativa è la polemica di Albrecht Dürer contro quanti, come Jacopo de’ Barbari, ancora schiavi delle enclosures medievali-corporative del sapere (e del saper fare), nascondevano le loro conoscenze impedendone così non solo l’utilizzo ma anche – a ben vedere – sia la conservazione che l’incremento: “(…) l’arte della proporzione si è perduta, per molto tempo non è più stata adoperata, ed è stata ripresa da circa centocinquant’anni [cioè dai Wahlen, gli italiani, e da Giotto in particolare, NdR]. Quelli che hanno ricominciato a esercitarla però non hanno pubblicato niente per noi, né in disegni né per scritto. Perciò da noi la mancanza dei maestri è tanto grave, e perciò è duro per ognuno ricercare e trovare queste cose col ragionameno e col proprio esercizio. Io so bene quanto sia difficile; e dunque supplico umilmente i grandi maestri di voler condividere con noi i doni che hanno ricevuto da Dio, poiché, prima della rinnovata crescita che è in atto, per mille anni non si è trovato niente che potesse giungerci in soccorso, e per poco l’arte non si è spenta del tutto. Dunque, se tra di voi c’è qualcuno che custodisce in segreto tale utile e buona arte, lo prego di darla alla luce e di condividerla generosamente con gli altri.” (pp.xiv-xv); “Item non ho notizia d’alcun moderno che abbia scritto e pubblicato qualcosa, che io possa leggere per mio giovamento; ché se qualcuno c’è, questi certo nasconde il proprio sapere” (p. lxxix): (una polemica, ci si consenta l’osservazione, che appare attualissima, in epoca di difesa accanita quanto anacronistica del copyright anche a fronte di Internet!).

Ancora, è tipicamente umanistico (e anzi, vien da dire, fondativo dell’umanesimo) il punto di equilbrio che qui si postula (e si ricerca) fra Hand e Verstand, fra la mano (o meglio, ciò che definiremmo il sapere della mano) e l’intelligenza (o meglio, umanisticamente, la ratio); come scrive persuasivamente Moly Feo: “Hand e Verstand  necessitano l’uno dell’altra: la diligente e quotidiana fatica di esercitarsi nel disegno, nella minuziosa precisione e nell’aderenza al ‘naturale’ è soltanto un vano esercizio fine a se stesso se privata del sostrato teorico, e viceversa.”(p.lxxvi).

Il fitto reticolo dei rimandi alle fonti, classiche e protoumanistiche, è il pregio maggiore del denso saggio che la curatrice premette all’edizione (il termine “introduzione” sembra davvero assai riduttivo per le pagine titolate “All’antico splendore”. I Vier Bücher von menschlicher Proportion tra antichi e moderni (pp.ix-xciv).

Su tutti, naturalmente, Leon Battista Alberti, ma anche Leonardo, e Luca Pacioli, il “frate vagabondo” di Borgo San Sepolcro, autore del De divina proportione (e ci piace ricordare il CD curato da Franco Ghione: Divina proportione, il trattato di Luca Pacioli con i disegni di Leonardo da Vinci e il libello di Piero della Francesca, Roma, Hochfeiler Multimedia, 1998); ma anche Cusano e Vitruvio, Plinio il Giovane e Pitagora, Euclide e Platone, Aristotele e il commento di Alberto Magno al de partibus animalium, etc.

Si noti però che in Dürer (e ancora una volta con gesto umanistico che apre al moderno) la norma tratta dai classici e dai maestri non si irrigidisce in astrazione normativa, ma si somma con l’osservazione reale dei corpi, dei volti e delle loro differenze; così lo studio delle proporzioni dà luogo nelle Tavole dureriane (edite tutte nel ii tomo, tutte corredate di misurazioni e numeri e istruzioni) a riproduzioni mobilissime, ancorché tratte dalla variazione di moduli di base, facendo vivere oltre quindici diversi tipi proporzionali (di uomini e donne, ma anche di veccchi e vecchie, e perfino di bambini), che con il movimento e l’apertura nell’ars combinatoria a ulteriori variazioni, promettono nell’esecuzione artistica di diventare infiniti, come è infinita la varietà dell’umano.

Ma torniamo al lavoro della Moly Feo e ai suoi meriti: non si può non notare che alla conoscenza, sempre diretta e profonda, della letteratura esemplare di antichi e moderni di cui si è detto (e del dibattito contemporaneo al Dürer: fra Norimberga e Venezia), la curatrice aggiunge una particolare padronanza della lingua tedesca, anche nelle sue impervie varianti storiche; ciò le permette non solo la comoda e scorrevole traduzione “a fronte” del testo (tomo i: pp. 1-451) ma anche uno scandaglio semantico delle sfumature linguistiche del suo Autore. Si tratta dunque in effetti di un’edizione critica del testo tedesco, e non solo della sua prima versione in italiano dopo quella (indiretta e insoddisfacente) di Gallucci del 1591 e 1594; benché basata sulla stampa del 1528 (Firenze, Bibl. Naz. Centrale, Magl. 1.2.153) l’edizione Moly Feo tiene infatti conto della “fase redazionale precedente” (già proposta da Rupprich) nonché dei “moltissimi materiali preparatori, ricostruendo la storia costitutiva del testo, trascrivendo, traducendo e sistemando in rapporto al testo definitivo tutte le fasi redazionali precedenti” (p.xc).

Insomma un lavoro che fa onore non solo alla studiosa che lo ha prodotto ma anche all’ambiente che lo ha maturato, la Scuola di Dottorato in Civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento dell’Università di Firenze, e in generale all’Università e alla cultura del nostro Paese.

R.M.